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Al cuore della nostra fede: la grande rivoluzione pasquale

pubblicato da admin il Lun, 03/30/2015 - 17:57

C'è un filo che lega  la passione, la morte, la resurrezione, l'ascensione e l'effusione dello Spirito. Questo filo intendiamo riproporre lungo tre tappe. La prima sono le tre giornate del venerdì, sabato e domenica di Pasqua che hanno inizio, secondo la consuetudine ebraica ereditata poi dalla Chiesa, nella sera del giovedì con la "missa in cena domini"; la seconda tappa è l'ascensione e la terza l'effusione dello Spirito Santo.

La prima tappa la proponiamo sotto forma di pellegrinaggio al tempo di Gesù, guidati dal libro di Hurs Von Balthasar "La teologia dei tre giorni". La seconda tappa si aprirà con un interrogativo: resurrezione,ascensione ed effusione dello Spirito accadde tutto in un'unica giornata o si distribuirono in un periodo di cinquanta giorni? Dopo di che cercheremo di capire l'importanza teologica di questo evento. In fine la tappa sull'effusione dello Spirito: questa terza persona della Trinità che è un po' uno sconosciuto.

 

Una Pasqua speciale in cammino con Cristo

Vorrei invitarvi a fare con me un pellegrinaggio dalla sera del giovedì santo fino alla giornata di Pasqua come se fossimo al tempo di Gesù e potessimo seguirlo nella sua grande e drammatica avventura. Ci faremo guidare in questo cammino da un grande teologo, ormai scomparso, che è stato anche cardinale :  Hans Urs Von Balthasar ed in particolare dal suo libro “Teologia dei tre giorni”.

Gerusalemme. Sala dove si pensa si sia tenuta l'ultima cena del Signore

Siamo a Gerusalemme nella sala dove Gesù consumò con gli apostoli l’ultima cena. Assistiamo alla lavanda dei piedi, all’uscita di Giuda, alla istituzione dell’Eucarestia. E poi il cammino nella notte e la passeggiata sino al Getsemani, l’allontanamento di Gesù con Pietro, Giovanni e Giacomo; la preghiera in solitudine con gli apostoli che non reggono al sonno; quindi l’uscita dal giardino e l’incontro con i soldati guidati da Giuda; il bacio di Giuda e l’arresto di Gesù. Dal Sinedrio a Pilato: processo e condanna; la via crucis, la crocefissione e la morte in croce, la deposizione e la sepoltura. Queste le tappe più salienti di questa prima sconvolgente giornata. Un crescendo di emozioni fino al grido finale sulla croce. La passione di Gesù ma anche la passione di Maria. Mentre la guardavo prima sulla via del Calvario e poi sotto la croce mi risuonavano nella mente le parole dello Stabat Mater, attribuite ad Jacopone da Todi: “Stabat mater  dolorosa, iusta crucem lacrimosa dum pendebat filius”.

Maria

 

Il cammino verso la croce

Ci sono alcune cose che mi colpiscono in questa prima giornata che von Balthasar chiama del “cammino verso la croce”. Innanzitutto il fatto che l’ultima cena si presenti ad un tempo come il momento conclusivo della missione terrena del Figlio – il momento delle raccomandazioni importanti e della consegna cruciale – ed allo stesso tempo appare già proiettata verso la partita finale, quella decisiva da cui deriva il successo della Missione: l’assunzione sul Cristo di tutto il peccato del mondo e la battaglia contro la morte per la vita eterna di chi crede in Lui.

Gesù ha trascorso gli ultimi tre anni della sua vita predicando ed insegnando. Ha sottolineato più e più volte da cosa riconosceranno i suoi discepoli: dall’amore che avranno gli uni per gli altri. Ha ricordato, più e più volte, che tutti i comandamenti possono ricondursi ad uno solo: ama il Signore tuo Dio ed il prossimo come te stesso. Ha ricordato quanto aveva già detto il profeta Osea che Dio vuole misericordia e non sacrifici. Infine ha sottolineato che nel giudizio universale non verrà chiesto a ciascuno conto delle proprie devozioni ma della carità verso il prossimo: ero affamato e mi avete dato da mangiare, ero nudo e mi avete vestito, ero ferito e mi avete soccorso…Ora, giunto alla conclusione del percorso, ha ancora un insegnamento da ricordare perché sa che fra tutti è il più importante ed il più difficile; quello che nei secoli rischierà di essere dimenticato proprio dai suoi discepoli: “il primo fra voi deve farsi servo dei propri fratelli”. E così pratica la lavanda dei piedi: passerà lui da ognuno dei dodici a lavare i piedi, perché questo impegno rimanga scolpito nei loro occhi e prima ancora nel loro cuore.

 

La lavanda dei piedi, a sinistra, l'istituzione dell'Eucarestia a destra

Ora si che può compiere l’altro gesto: il sacramento principe. Istituire l’Eucarestia e cioè creare il grande ponte fra questo mondo ed il Regno, anzi la profezia del Regno in questo mondo. “Fate questo in memoria di me” : mangiate il mio corpo e bevete il mio sangue.

Gerusalemme. Stradella che dalla sala dell'ultima cena porta al Getsemani

Non ha più niente da insegnare, il Figlio. Può dedicarsi completamente al grande atto della sua Missione. Così rivolto a Giuda dice : quello che devi farlo fallo in fretta. Metti in moto le schiere del male che io sono pronto allo scontro. Von Balthasar ha scritto che il diavolo “è assente da tutta la storia della passione la quale si gioca solo tra il Padre e il Figlio; ciò di cui si tratta qui è di portare il peccato del mondo (Gv 1,29) e con questo avvenimento – senza lotta esplicita – la potenza avversaria è ‘disarmata’ (Col 2,159 ”( H.U. von Balthasar, La teologia dei tre giorni, pag. 99). Mi permetto di dissentire dal grande teologo. Il diavolo presidia tutta la storia della passione perché spera che l’uomo Gesù non resista alla sofferenza e riesca ad avere in qualche momento la supremazia sul Figlio abbandonando la croce o chiedendo di scendere da essa o quanto meno decida di non subìre più la sofferenza. Certo il diavolo sarà costretto a fare un po’ da comprimario ed avrà un ruolo marginale perché i due attori principali sono il Padre e il Figlio. D’altronde ai lati del Padre e del Figlio non c’è solo il diavolo con i suoi sodali che scientemente o non scientemente cercano di rendere più gravoso il cammino verso la croce. Ci sono anche tutti coloro che, con lo sguardo fisso alla passione, hanno offerto nel tempo le loro sofferenze a sostegno del Cristo. Quelle poche centinaia di metri che separano il Pretorio dal Calvario e dalla croce divengono, in qualche modo, l’epicentro del mondo, lo scenario in cui si gioca non solo il destino dell’umanità ma dell’intero universo creato. Per questo la passione, come abbiamo potuto costatare , è così singolarmente cruenta.

Il giardino del Getsemani

Il Figlio lo ha compreso bene nel Getsemani, anzi ancor prima, come testimonia Giovanni (12,20 36). La missione che lui ha accettato liberamente e per la quale si è spogliato della divinità è giunta al culmine. Ora l’autocompresione che l’uomo Gesù ha della missione e della sua vera natura è praticamente completa.  Ed è proprio la mattina della domenica delle palme che egli annuncia che “è venuta l’ora” tanto attesa e tanto temuta (12,23). Ed aggiunge “Adesso l’anima mia è turbata”( 12,27). E von Balthasar ci ricorda che il termine usato per indicare questo turbamento è taraché che “sta  a significare che colui che è venuto per vincere la morte si lascia totalmente afferrare dalla consapevolezza della violenza, dell’ostilità, del carattere antidivino di quelle potenze che si trattava di vincere “( pag. 113). Citando  Thusing, von Balthasar aggiunge che “ un movimento spirituale prende possesso di Gesù, con una forza che presso gli altri uomini implicherebbe un disorientamento assoluto”.

Un disorientamento che in parte traspare dal monologo riportato ancora da Giovanni: Ora che l’anima mia è turbata, “che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!  Padre, glorifica il tuo nome” (Gv 12, 27-28). Non pensare a me Padre, va avanti nel nostro progetto di redenzione. E il Padre gli risponde con una voce dall’alto che a molti sembra un tuono: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. E Gesù rivolto alla folla commenta: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,31-32).  Questa è la grande partita che si gioca fra il Padre ed il Figlio, un padre amorevole ed un figlio obbediente, e l’amore del Padre non è solo rivolto al Figlio ma a tutti gli uomini che vuole amare e da cui vuole essere amato liberamente e per questo ha consentito a questo progetto.  Ma anche se il Padre è un Padre amorevole ed il Figlio è un figlio obbediente  non per questo si tratta di una partita meno tragica. Una tragedia che va ingigantendosi lungo la strada perché la sofferenza del Figlio è inclusiva e ad essa si aggiungono le sofferenze degli uomini che dalla Passione in poi accettano di portare la croce col Cristo finchè egli non sarà innalzato.

La croce non viene prima della gloria ma la croce è già la sua gloria. “E la gloria di Gesù viene rettamente compresa solo quando viene intesa come gloria del crocifisso che si manifesta nella resurrezione “ (Balthasar, pag. 114).

Gesù prega nel Getsemani

Qui, in questo disorientamento-turbamento sta l’origine di quell’angoscia che Gesù prova nel Getsemani e che gli fa sudare sangue. Non è un fatto psicologico ma deriva dal com-patire con i peccatori “poiché i peccati del mondo vengono ‘caricati’ su di lui. Gesù non distingue più se stesso o il proprio destino da quello dei peccatori – e questo tanto meno , come dice Bonaventura, quanto maggiore è l’amore – e sperimenta perciò l’angoscia e il terrore che essi avrebbero dovuto giustamente provare” (pag.97).

Il cammino della croce è il cammino, lo ripeto, per liberare il mondo dalla schiavitù del peccato e dalla morte e per rendere l’uomo libero, capace di redenzione e di vita eterna. La sofferenza di Gesù è una sofferenza che i teologi chiamano vicaria cioè che è assunta in sostituzione dei peccatori. E non si tratta, come ricorda von Balthasar e come abbiamo già osservato, di una sofferenza esclusiva ma inclusiva che vuole condurre altri a soffrire con lui. Divenire cristiani significa pervenire alla croce. Vuol dire che Cristo ha fatto di me un organo della sua redenzione. Ne segue che noi portiamo nel nostro corpo la sofferenza di morte del Cristo e non la nostra sofferenza, per cui non la nostra vita, ma “ la vita di Cristo si manifesta nella nostra carne mortale “(2Cor 4, 10 s.). E questa è la consapevolezza che portiamo nel nostro cuore a conclusione di questa prima giornata ed ognuno può considerare dentro di sé quale è stato il proprio contributo al successo del progetto di Dio.

Lo si fa guardando Gesù sulla croce, ascoltando le sue parole, ripensando alle torture del Pretorio, alla via crucis, ai chiodi con cui lo si è infisso sulla croce e quindi le ore di sofferenza sul legno. Solo così forse  si può comprendere quanto grande sia stata la sua funzione vicaria e quanto piccolo il sostegno che noi uomini gli abbiamo portato, che io almeno gli ho portato. Le sofferenze del crocifisso inserite fra due salmi che lui accenna solamente e che la gran parte dei presenti non comprende: Il salmo 22,2 “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato” ed il salmo 31,6 “Padre nelle tue mani raccomando il mio spirito” avendo constato che ormai tutto era compiuto. Due salmi che hanno lo stesso significato, ricordare al Padre che lui, il Figlio, ha portato a compimento il proprio compito e che ora toccava a lui intervenire e completare il disegno senza temere che questo atto sia talmente forte da coartare il libero arbitrio degli uomini. Che indubbiamente è una preoccupazione forte del Padre fin dal tempo della creazione. Rispettare la libertà dell’uomo chiedere che diventi liberamente  un interlocutore di Dio.

Ed in mezzo due disposizioni. Il perdono per tutti con  la specificazione al ladrone pentito che la sera stessa sarebbe stato con lui in Paradiso come a sottolineare che questo perdono era pieno ed operava da subito per chi si pentiva. Quindi l’affidamento di Maria a Giovanni chiamati ad essere da quel giorno madre e figlio, anzi Maria chiamata ad essere, attraverso Giovanni, madre di tutti e quindi Madre della Chiesa e noi, attraverso la rappresentanza di Giovanni, ad essere figli di Maria e fratelli di Gesù.

Gerusalemme. Basilica del Santo Sepolcro. Altare della Crocefissione.

Infine quella parola “Ho sete” che forse sfuggiva al corpo straziato e febbricitante del quale non voleva controllare in alcun modo la sofferenza o forse era rivolta al Padre del quale non tollerava più l’abbandono anche se apparente e strumentale: Ho sete del tuo amore.

Ora dobbiamo andare avanti. Già entriamo nel sabato e quindi nel nuovo cammino, quello che Gesù compie, per dirla con von Balthasar, verso i morti. Sarà un percosso più semplice ed al tempo stesso più complesso.

 

Il cammino verso i morti.

Perché più semplice e più complesso? Perché i Vangeli e il Nuovo Testamento in generale sono molto parchi sul sabato santo per quanto invece si sono profusi in informazioni sul venerdì. Il sabato è il giorno in cui Gesù è morto e, per quello che è dato sapere anche fra i discepoli, egli giace nel sepolcro  come tutti i morti. Inoltre nel cammino che egli compie lo si può seguire solo attraverso una esperienza mistica e quindi attraverso una esperienza soggettiva e personale.

 I riferimenti ad una attività di Cristo in questo giorno sono molto scarni ed anche di difficile e controversa interpretazione. Forse il passo più conosciuto è quello della prima lettera di Pietro: “E in spirito egli andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione”(3,19) e più avanti: “è stata annunziata la buona novella anche ai morti, perché pur avendo subìto, perdendo la vita del corpo, la condanna comune a tutti gli uomini, vivano secondo Dio nello spirito”(4,6). Giovanni nel suo Vangelo in un versetto che abbiamo già citato in un’altra traduzione, dice (5:25): "In verità, in verità vi dico: l'ora viene, anzi è già venuta, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio; e quelli che l'avranno udita, vivranno". Paolo nella lettera agli Efesini cita il salmo 68 dove si dice” Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini”(Ef. 4,8).

Gerusalemme. Basilica del Santo Sepolcro. Il sepolcro di Gesù.

A parte la sottolineatura che ci andò “in spirito” e quindi non ancora risorto, i nodi più controversi mi sembrano soprattutto due: l’annunzio della buona novella e la liberazione dei prigionieri per portarli con sé in cielo chi riguarda? Tutti i morti o solo alcuni? E chi per la precisione? Il secondo nodo è il significato di questa “discesa agli inferi” – come recita il Credo  – o, meglio, se non si vuole usare il termine “discesa” che induce nell’equivoco di “una mitica rappresentazione tripartita del mondo”, questo cammino verso i morti o lo stare con i morti ,. E’ per avere potere sopra gli inferi come afferma l’Apocalisse(Ap.1,18). E che significato ha questo potere?

Riguardo a questi interrogativi cominciamo col dire che nella Chiesa e fra i cristiani ci sono differenze che risalgono all’antichità come gli indirizzi che riguardano l’Oriente e l’Occidente.

Il Catechismo ortodosso di san Nikolaj Velimirovic da per scontato che Cristo, dopo la Sua morte sia disceso in un luogo chiamato "inferno". Definisce l'inferno come: il regno delle tenebre, in cui Satana ha il potere della morte. Il Cristo “poté calpestare con la morte colui che ha il potere della morte, cioè il diavolo” (Ebrei 2:14). Il Cristo, in quel luogo, avrebbe "costretto Satana a tremare ed a fuggire di fronte al suo volto" ottenendone per risultato che: "Miriadi di anime, che lì soffrivano, gioirono per la discesa del Cristo". Specificando, poi, che cosa abbia fatto il Cristo per quelle anime, il catechismo ortodosso risponde: "Predicò loro il suo Vangelo, la Buona Novella, e confermò la sua vittoria su Satana e sulla morte. E poiché molti lo accolsero furono salvati".
L'ortodossia orientale ritiene scontato che la discesa di Cristo nell'Ades ( negli Inferi, nello Sheol, come lo si vuole chiamare questo regno dei morti) sia sempre stata una dottrina comunemente accettata ed indiscussa nella Chiesa. Essa segna la vittoria di Cristo sul diavolo, l'inferno e la morte, come pure si dà per scontato che questo avvenimento abbia un significato universale (benché l'estensione dei benefici di quest'opera di Cristo sia da molti intesa non per tutti, ma solo per una particolare categoria di morti). Quest'opera, inoltre è considerata il compimento della "economia" di Cristo il Salvatore come il coronamento e l'esito dell'impresa che Egli ha adempiuto nella redenzione.

Per la Chiesa d’’Oriente la discesa agli inferi di Cristo costituisce quindi la principale rappresentazione della nostra redenzione. Cristo vincitore della morte oltrepassa le porte degli inferi che giacciono ai suoi piedi, e tende a coloro che languono nelle tenebre dello Sheol la sua mano salvatrice a cominciare dai Patriarchi, i profeti e tutti i giusti che attendevano  la redenzione. E chiaro che qui non si pensa solo al Cristo in spirito ma che già nel Sabato santo, per la Chiesa d’Oriente , è avvenuta la resurrezione e prima di manifestarsi agli apostoli ed ai discepoli il Figlio sente di compiere un atto di giustizia verso chi è morto prima della gloria della croce.

In Occidente la liturgia e la teologia considerano soprattutto il silenzio della croce, la Chiesa veglia con Maria tacendo e pregando sulla tomba. A differenza della Chiesa d’Oriente per quella d’Occidente fra il venerdì santo e la Pasqua sembra non accadere nulla. L’affermazione che Gesù “discese agli inferi” comincia a farsi strada nel IV secolo. Nel 400 circa la formula si ritrova nel Credo battesimale in connessione con la chiesa di Aquileia . Rufino dice che a quel tempo questa proposizione non si trovava nel Credo della Chiesa romana. Abbiamo, così, questa curiosa combinazione: nel Credo niceno c'è l'affermazione sul seppellimento, non sulla discesa; nel Credo atanasiano sulla discesa ma non del seppellimento. Nel Credo apostolico vi si trovano entrambi. Questa proposizione, però, è stata accettata solo gradualmente e soprattutto attraverso gli scritti di Agostino . Nel VII secolo compare forse per la prima volta la forma "descendit ad inferos" e dopo di questa si ritrovano tutte le due forme.
Il tema della “discesa”, sebbene non si trovi in un Credo fino alla fine del V secolo, era però già sviluppata nel II e nel III secolo è insegnata dai teologi del primo secolo come  Tertulliano nel "Trattato sull'anima"; Origene nello scritto Contro Celso e, più tardi Ambrogio.

E, senza dubbio, questa credenza può essere considerata unanime, sebbene vi fosse grande differenza di opinioni sul suo significato e proposito. E' importante notare che, nonostante questo riferimento ampio e dettagliato alla discesa negli inferi, nessuno allora sembri concepire l'esistenza di un Purgatorio o di una nuova opportunità di salvezza per coloro che abbandonino questa terra senza avere accolto il Cristo come loro Salvatore e Signore.

Ma al di là delle formule teologiche, che cosa Gesù vede nello Scheol? Qualche spiraglio lo aprono i mistici come Adrienne von Speyr che influenzerà fortemente la riflessione teologica di Von Balthasar. Il contributo di Adrienne mi sembra importante per orientarci in questo “cammino verso i morti” e per tratteggiarlo mi baso su uno scritto di Von Balthasar, Primo sguardo su Adrienne von Speyr del 1975.

Gesù fra i morti

Cristo penetra nell’Inferno (o Inferi, Ade, Scheol) per obbedienza al Padre. Infatti l’Inferno è il luogo dove Dio non è, in cui non c’è più la luce della fede, della speranza, dell’amore, della partecipazione alla vita di Dio; l’Inferno è ciò che Dio nel suo giudizio ha rigettato fuori dalla sua creazione, esso è pieno di ciò che non si accorda assolutamente con Dio, ciò da cui Egli si allontana eternamente; è pieno della realtà di ogni assenza di Dio nel mondo, della somma del peccato del mondo. E quindi proprio di ciò di cui Dio crocefisso ha liberato il mondo. Egli incontra nell’Inferno – non come trionfatore pasquale, ma nell’estrema notte dell’obbedienza, della vera obbedienza del cadavere - la sua propria opera di redenzione: l’orrore del peccato staccato dagli uomini. Egli lo ‘attraversa’ (senza lasciar traccia, perché nell’Inferno e nell’esser-morto non vi è  direzione né tempo) e misura in tutta la sua estensione la sa informità, fa esperienza del secondo Caos. Qui egli è privo di ogni luce spirituale proveniente dal Padre, e deve, nella pura obbedienza, cercare il Padre proprio là dove non lo può in nessun caso trovare. Eppure, questo Inferno è un ultimo mistero del Padre in quanto creatore (che ha dato la libertà all’uomo), e così il Figlio fatto Uomo prende conoscenza ‘sperimentalmente’ di queste tenebre, di qualcosa che fino ad allora era stato riservato al Padre. L’Inferno è visto così nella sua ultima possibilità, un fatto trinitario. Nel Sabato Santo il Padre ne consegna la chiave al Figlio”.

Se questo è il contenuto oggettivo teologico delle esperienze che Adrienne compie, l’esperienza soggettiva è molto più drammatica. Ella sperimenta prima di tutto una straordinaria solitudine, la separazione da tutti gli uomini. “Era la massima dimensione dell’esser solo, era l’’esser abbandonati’”. Davanti a lei ed intorno a lei vedeva un enorme flusso di peccati. Solo peccati, in qualche modo deposti, privi del possessore. Mancavano loro i rapporti di vicinanza e contemporaneità all’uomo. Adrienne non vede uomini e non sa dire se non ve ne siano o non li abbia visti lei. Può darsi che tutto ciò sia solo il fondo del mondo, i peccati, che sono così pesanti da affondare fin giù al fondo di tutto, mentre forse le anime che li commisero sono in tutt’altro luogo.

Cristo deve passare attraverso l’Inferno per tornare al Padre; egli deve infatti poter vedere completamente l’ampiezza dell’opera da lui compiuta, il cui risultato, infine, è il peccato senza coloro che gli appartengono; da ultimo ha egli provocato la separazione fra peccato e peccatore e nell’Inferno egli si imbatte nel peccato nudo, privo di ogni rapporto”.

Von Balthasar  ne “La teologia dei tre giorni “ osserva che “se il Padre deve essere considerato il creatore dell’umana libertà – con tutte le conseguenze prevedibili! – allora anche il giudizio e l’ ‘inferno’ appartengono originariamente a lui e se egli manda il figlio nel mondo per salvarlo invece di giudicarlo e a lui ‘rimette tutto il giudizio’ (Gv 5,22), allora deve introdurlo, in quanto incarnato, anche nell’ ‘inferno’ (come suprema conseguenza della libertà umana). Il Figlio però può essere nell’inferno solo come morto, il sabato santo. Questa introduzione è necessaria se ‘i morti devono ascoltare la voce del figlio di Dio’e, ascoltandola, ‘vivere’ (Gv.5,25). Il Figlio deve ‘osservare quanto di imperfetto, di deforme, di caotico c’è nell’ambito della creazione’ per riportarlo, in quanto Redentore, sotto il suo possesso” (pag.156). 

L’Inferno che appartiene al campo del Padre, è un mistero del Padre in quanto creatore, un’ultima conseguenza di quell’amore divino in cui Egli ha creato gli uomini per la libertà e perciò ha dato loro anche la possibilità di dire sì o no a lui. “Il peccato… è la conseguenza del fatto che nell’amore – osserva Adrienne - deve dominare la libertà e perciò è possibile anche il rifiuto”.  L’inferno è anche “il resto che non si può redimere, che non si può sciogliere. E’ il buio contrappeso al luminoso mistero d’amore fra Padre e Figlio”.

Von Balthasar mette in guardia: in quanto evento trinitario il cammino verso i morti è necessariamente un evento salvifico. Ed un evento salvifico non si può limitare a priori. In passato si sono voluti distinguere varie stratificazioni dell’inferno: limbo, purgatorio, limbo dei bambini non battezzati e infine il vero e proprio inferno; e si voleva con questo sostenere che non c’era rimediabilità all’inferno vero e proprio. Questo vorrebbe dire che questo inferno è rimasto fuori dalla portata di Cristo? Ma per questa limitazione non c’è nessun riferimento biblico né indicazione dettata dalla ragione. Ma allora si può affermare che tutti gli uomini, prima e dopo di Cristo, sono ormai redenti e che  Cristo con la sua esperienza dell’inferno, lo ha svuotato e, perciò, tutta la paura della dannazione è privata di contenuto? Significherebbe , interviene von Balthasar , cadere nell’eccesso opposto. Certo si può dire con Origene che nell’essere con i morti Cristo introduce in quello che potrebbe essere raffigurato come il fuoco dell’ira divina il fattore della misericordia. E allora?

Le affermazioni salvifiche universalistiche sono affermazioni di speranza per tutti ma non vogliono dire che effettivamente tutti singolarmente si salveranno perché Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini, ma non la vuole senza gli uomini, non la vuole passando sopra alla loro libertà. Viceversa le affermazioni che parlano di giudizio e fanno riferimento all’inferno non intendono dire di nessun uomo e men che mai  della maggioranza degli uomini che sono caduti nella pena dell’inferno. Più chiaramente: di nessun essere umano concreto ci è stata rivelata la dannazione eterna e la Chiesa non ha mai insegnato in modo dogmaticamente vincolante a proposito di nessuno che egli sia caduto nella dannazione eterna. Nemmeno di Giuda che pure tradì Gesù e poi condannò se stesso impiccandosi.

Perciò né un ottimismo a buon mercato nei riguardi della salvezza, né un pessimismo che incute la paura dell’inferno corrispondono alle affermazioni bibliche. Possiamo sperare nella salvezza di tutti,  ma di fatto non possiamo sapere se tutti si salveranno.

La libertà di Dio, così come la libertà dell’uomo sono un mistero insondabile. L’unica risposta sulla base della testimonianza biblica è che la misericordia di Dio mantiene aperta una possibilità di salvezza per ogni essere umano, che è in linea di principio disposto a convertirsi  e si pente della propria colpa, anche se tale colpa fosse enormemente grande ed egli avesse sprecato tutta la propria vita precedente.

 

Il cammino verso il Padre

Siamo alla fine del Sabato santo. E’ vero che non abbiamo  camminato ma abbiamo ugualmente seguito Gesù con gli occhi della mente e del cuore ed il viaggio è stato sconvolgente. Siamo passati attraverso l’inferno. Ora abbiamo, ci pare, dinnanzi a noi un cammino più semplice. Certo non pensiamo di potere seguire Gesù ma di poterlo incontrare in alcuni momenti, questo sì. Forse non nel momento della Resurrezione quando rotola la pietra che copre il sepolcro ed il vivente esce dalla tomba nella quale é stato rinchiuso. Ci sarà stata pure una ragione perché a questo evento non ha assistito nessuno. Non i discepoli ma probabilmente nemmeno i soldati posti di guardia che forse dormivano, perché altrimenti, non subito ma nel tempo, qualcuno avrebbe parlato. Potremo assistere all’incontro con la Maddalena, oppure quando Gesù compare agli apostoli e quando ascende al cielo se come, suggerisce Giovanni, resurrezione, ascensione e pentecoste avvengono tutte nello stesso giorno.

 

A sinistra la tomba vuota. A destra, Pietro e Giovanni corrono verso il sepolcro.

Dobbiamo parlare del mistero più grande del creato: della Resurrezione e di come essa ha cambiato l’Universo. Diciamo subito che si tratta di un evento discreto: la rivelazione della resurrezione non avviene “davanti a tutto il popolo, ma solo davanti a testimoni preordinati da Dio “(At. 10,41). Così come l’incarnazione e la nascita. Anzi qui, a mio avviso, a maggior ragione. Qual era uno dei nodi più controversi che il Padre ed il Figlio discussero fin dal Getsemani fin sulla croce? Probabilmente proprio il fatto che una risurrezione per l’eternità era un atto così forte e clamoroso che avrebbe rischiato di coartare la libertà dell’uomo. Se fosse avvenuta dinnanzi al popolo, dinnanzi alle guardie, dinnanzi ai romani chi avrebbe più potuto negarlo?  E però questo evento portentoso doveva garantire anche  che coloro che avessero voluto credervi avrebbero trovato i riscontri, per quanto impervi, per quanto difficili.

Cristo si manifesta – osserva von Balthasar – entrando nel nascondimento. “Voi mi cercherete ma non mi troverete “ (Gv 7,34), “a partire da adesso non mi vedrete più”(Mt 23,39). Anche ciò che lo Spirito rivelerà di lui nella storia, rimarrà sempre segno di contraddizione e non si affermerà mai in maniera diretta o adialettica nella storia del mondo (pag. 227).

  

Due immagini di Gesù risuscitato che appare agli apostoli

Ma dove stanno allora i riscontri per credere? Almeno al momento decisivo, quando Gesù fu arrestato e giustiziato, i discepoli non nutrivano certezza alcuna che potesse esserci una resurrezione. Anzi ciò che li invade è un senso di fallimento e di paura. Per questo fuggono lontano e quasi tutti sono lontani dal Calvario quando avviene la crocifissione. Dovette intervenire qualcosa di portentoso che in poco tempo provocò il cambiamento radicale del loro stato d’animo, e che li portò ad una attività del tutto nuova e alla fondazione della chiesa. Questo qualcosa - dice il teologo Dibellius – è il nucleo storico della fede di Pasqua”. Non poteva essere la testimonianza delle donne a risvegliare la fede senza vita dei discepoli, ma solo il Risorto stesso che dà ad essi, con la sua persona, il Dio vivo. Una forza di convincimento e di conversione spinge i discepoli, per la prima volta, alla confessione della divinità del Risorto che non poteva avvenire prima di Pasqua. Solo la presenza di Cristo vivente in mezzo a loro legittima gli anni della predicazione ed il fatto che Gesù è il Signore, il Messia. Quindi un fatto reale non una visione, non un fenomeno psicologico. Così a partire dall’avvenimento di Pasqua si svela ai discepoli il senso della vita precedente di Gesù e della globalità delle Scritture che lo stesso Risorto spiega riferendole a se stesso.

Ed essi cominciano a capire che è il Padre che lo ha risorto perché tramite la resurrezione ha portato a compimento la sua azione creativa mediante la resurrezione dei morti. E non è un caso che la Resurrezione del Cristo fin dall’inizio viene vista come primizia della vita eterna per molti. E come la Resurrezione trasforma gli Inferi liberando i giusti, così trasforma anche il Paradiso che diventerà, con la presenza degli uomini risorti, dei loro valori, delle strutture di solidarietà e della creazione trasfigurata, il Regno di Dio.

Potremmo concludere qui la nostra riflessione e il nostro pellegrinaggio, con la resurrezione di Gesù, la presa di coscienza degli apostoli e dei discepoli, la nascita della chiesa,  la spirazione dello Spirito, l’avvio della missione dei discepoli dopo la Missione del Cristo. Ma forse è bene soffermarci su alcuni particolari che  possono aiutarci a comprendere meglio questo evento straordinario.

Il primo riguarda il corpo risuscitato e trasfigurato. A questo proposito Von Balthasar citando Schlier scrive:  Gesù viene riconosciuto e tuttavia non si riesce a riconoscerlo. Egli è presente nel dare se stesso e tuttavia si sottrae. Egli si da per essere toccato e rifiuta di essere toccato. Egli è corporalmente presente, ma nella diversità celeste ed incomprensibile. E i vangeli lasciano l’una accanto all’altra le diverse ed in parte contraddittorie tradizioni, operando solo leggeri tentativi di armonizzazione. Si può pensare  che i corpi risuscitati e trasfigurati abbiano una certa autonomia di autorappresentazione oppure attribuire le differenze alla confusione dei testimoni posti di fronti ad eventi così eccezionali.

Un’altra serie di interrogativi si riferiscono alla distribuzione delle funzioni e dei carismi all’ interno della chiesa. Le apparizioni di Gesù dopo la resurrezione hanno un significato in ordine ai ruoli ed ai ministeri? Ha un senso che egli sia apparso innanzitutto alle donne come a Maria Maddalena in Giovanni( 20. 16-17) e Marco (16,9), o sempre a Maria di Magdala e l’altra Maria in Matteo (27,61)? Ha un senso che nel vangelo di Giovanni, l’apostolo che Gesù amava giunga per primo ma si ferma dinnanzi alla tomba e lascia entrare prima Pietro e solo dopo fa anche lui il suo ingresso (20,4-8)?

Von Balthasar osserva che è come se l’aspetto direttamente maschile e gerarchico della storia della fondazione della chiesa ricevesse un contrappeso nel ruolo fortemente accentuato che hanno le donne fin dal momento della crocefissione, fino alla sepoltura, alla scoperta del sepolcro vuoto e quindi l’annunzio della resurrezione. E’ come se Gesù guardasse lontano oltre le culture del tempo e le consuetudini a quando le donne non saranno più discriminate e potranno assumere quel ruolo che spetta loro di diritto. Ad esempio, al fatto che la Madonna è incoronata regina del cielo e della terra.

Un altro problema, fa osservare sempre von Balthasar, i vangeli mettono in risalto riguardo alla chiesa. In particolare l’evangelista Giovanni col discorso delle precedenze intono al sepolcro vuoto e cioè il rapporto fra chiesa istituzionale (Pietro) e chiesa della carità (Giovanni). Certo l’autorità merita rispetto ed ha diritto alla precedenza ma anche deve comprendere che gli occhi della carità sanno scorgere anche quello che  all’autorità può sfuggire (  e cioè il modo con cui è deposto il sudario che è come se fosse svuotato dall’interno) e quindi pervenire più facilmente a credere.

Infine un ultimo problema. Leggendo i Vangeli ed anche gli Atti si rischia di fare un po’ di confusione quanto agli eventi della domenica della Resurrezione. Avviene tutto in quella domenica (il primo giorno dopo il sabato)?  Dalla resurrezione alle apparizioni, all’ascensione al Padre e quindi alla discesa del Paraclito con la pentecoste, oppure questi eventi sono scaglionati nel tempo? Luca sembra proporre entrambe le soluzioni: nello stesso giorno nel Vangelo e invece cadenzato nel tempo negli Atti degli apostoli dove separa l’evento di Pasqua e quello dell’Ascensione con un periodo di 40 giorni e fa dell’Ascensione il presupposto per la missione dello Spirito il giorno di Pentecoste. Gli altri evangelisti ed in particolare Giovanni sembrano propendere per l’unico giorno di Pasqua. Von Balthasar osserva che nel Luca degli Atti sembra prevalere una visione pedagogica e certamente anche cultuale, mediante il prolungamento del ciclo temporale e festivo, mentre Giovanni fonde insieme in una visione teologica altrettanto fondamentale, Pasqua, Ascensione e Pentecoste e fa che già nel giorno di Pasqua, il Risorto spiri alla chiesa lo Spirito (20,22); egli però, almeno di sfuggita, accenna alla salita al Padre (20,17), che precede la spirazione dello Spirito ( pag.187).

A chiusura

Ho voluto condividere questo pellegrinaggio che ho compiuto col cuore e la mente perché per me  è stato una preparazione forte alla Pasqua e spero che possa esserlo anche per chi voglia condividerlo nella lettura e nella preghiera. Dei tre giorni particolarmente impresse mi rimangono le centinaia di metri dal Pretorio al Golgota in cui Gesù dialoga col Padre ed i cui termini di questo dialogo possiamo solo ipotizzare. Un dialogo che è cominciato nel Getsemani. Anzi, ancor prima come ci dice Giovanni (12,20 36). Il Figlio che prega il Padre di lasciarlo andare fino in fondo in questo progetto di completamento ed allo stesso tempo di rivoluzionamento della creazione che esalterà l’uomo facendolo pienamente interlocutore di Dio ed assumendo come co-creatore ed il Padre che teme che proprio il gesto della resurrezione possa minare alle radici il loro comune progetto perché potrebbe coartare il libero arbitrio dell’uomo senza il quale cadrebbe il ruolo di interlocutore e di co-creatore.

E mentre si svolge questo dialogo drammatico fra il Padre e il Figlio con il Demonio scalzato dal ruolo di signore del mondo e costretto a fare da comprimario (“ora il principe di questo mondo sarà estromesso” Gv 12,31), ecco che ai lati del cammino verso il Golgota come i tifosi che accompagnano i corridori in bicicletta che si inerpicano verso il gran premio della montagna, si dispongono da un lato i sodali del Demonio che insultano, scherniscono, strattonano, sputano e sperano che Gesù abbandoni la croce o quantomeno escluda da sé la sofferenza dichiarandosi sconfitto (“Se sei il figlio di Dio chiedi a tuo padre che mandi i suoi angeli a liberarti”) e, dall’altra, tutti coloro che dalla Passione in poi hanno scelto di condividere le sofferenze di Cristo comprendendo che egli ha assunto la sofferenza in funzione vicaria, sostituendosi a noi nel dolore per i nostri peccati, ma che questa funzione può essere inclusiva ed associare tutti coloro che lo vogliano.

Questo che va dal Getsemini al Calvario è il grande dramma cosmico che culminerà sulla croce con i due versetti dei salmi “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” e , dopo aver constatato che tutto è compiuto,  “Padre nelle tue mani raccomando il mio Spirito”.

                                                                                                                             Michele Giacomantonio

 

L'importanza dell'Ascensione nella grande rivoluzione della Resurrezione del Cristo. Giorno pasquale e periodo pasquale.

Giotto. Ascensione

Nel saggio “Una Pasqua speciale, in cammino con Cristo” pubblicato ora qui sopra, scrivevo: “ Leggendo i Vangeli ed anche gli Atti si rischia di fare un po’ di confusione quanto agli eventi della domenica della Resurrezione. Avviene tutto in quella domenica (il primo giorno dopo il sabato)?  Dalla resurrezione alle apparizioni, all’ascensione al Padre e quindi alla discesa del Paraclito con la pentecoste, oppure questi eventi sono scaglionati nel tempo? Luca sembra proporre entrambe le soluzioni: nello stesso giorno nel Vangelo (Perché cercate fra i morti colui che è vivo? 24, 5-7; Poi li condusse fuori verso Betania...e si staccò da loro e veniva portato su, in cielo 24, 50-51; Ed ecco io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso 24, 49) e invece cadenzato nel tempo negli Atti degli apostoli dove separa l’evento di Pasqua e quello dell’Ascensione con un periodo di 40 giorni e fa dell’Ascensione il presupposto per la missione dello Spirito il giorno di Pentecoste. Gli altri evangelisti ed in particolare Giovanni sembrano propendere per l’unico giorno di Pasqua. Von Balthasar osserva che nel Luca degli Atti sembra prevalere una visione pedagogica e certamente anche cultuale, mediante il prolungamento del ciclo temporale e festivo, mentre Giovanni fonde insieme in una visione teologica altrettanto fondamentale, Pasqua, Ascensione e Pentecoste e fa che già nel giorno di Pasqua, il Risorto spiri alla chiesa lo Spirito (20,22); egli però, almeno di sfuggita, accenna alla salita al Padre (20,17), che precede la spirazione dello Spirito ( pag.187)”.

Giotto. Particolare

Non mi pare una questione del tutto secondaria. Mi ha sempre colpito il fatto che il Cristo superata la prova centrale nella ricreazione della passione/morte/resurrezione non corre subito al Padre a condividere giaia e successo nella comunione trinitaria ma staziona quaranta giorni sulla terra apparendo alcune volte ai discepoli ma rimanendo nascosto per il resto del tempo. Così da un punto di vista logico appare naturale che il Cristo risorto voglia raggiungere subito il Padre. Per cui tutto si è svolto, sicuramente, nello stesso giorno, il primo dopo il sabato costituendo la domenica, il giorno del Signore. Ma può un solo giorno contenere, per le nostre menti, degli eventi così complessi e rivoluzionari per la storia del creato? Può comprendere che quando ancora i discepoli non si erano resi conto che il Cristo fosse risorto già questi saliva al Padre in un incontro di cui possiamo solo intuire, in maniera minima, l’esperienza di gioia infinita che si sviluppa nella comunione trinitaria qualificata dal successo di una missione in cui le tre Persone avevano sperato, creduto, che avevano voluto ma per la quale avevano anche temuto? E possiamo solo intuire, in maniera minima, la forza che da questo re-incontro si sviluppa? Una forza che rivoluziona il Paradiso e lo trasforma in quel Regno che Cristo ha annunziato nella sua esperienza terrena dove entrano a farne parte, assieme agli angeli ed alle schiere celesti, gli uomini con i loro valori e le cose buone da loro realizzate, tute cose che diventano a pieno titolo parte della creazione? Ed è naturale che da questo re-incontro di gioia e di forza scaturisca un nuovo ruolo dello Spirito chiamato ad alimentare quel discernimento spirituale che eleva l’uomo dalla sua naturalità e lo porta a trascendersi in una eternità che comincia già in questo mondo e che si alimenta con la preghiera, l’eucarestia, la misericordia. Può la nostra mente non solo comprendere ma condividere comunitariamente tutto questo? Non meraviglia quindi che fin da subito la Chiesa apostolica realizzò che il mistero della Pasqua dovesse maturare lentamente nel cuore e nella mente dei credenti, radicandosi profondamente. E Luca negli Atti raccoglie questa considerazione di natura pedagogica e cultuale e diluisce il giorno pasquale in un periodo pasquale..

Giotto. Particolare

D’altronde perché stupirsi di questa apparente contraddizione dei Vangeli? Non ci è stato detto che “ davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2Pietro3, 8)? Non ci è stato detto che il tempo é per l'uomo e Dio vive la dimensione dell'eternità?

Piuttosto conviene tornare proprio sul significato dell’Ascensione: un evento la cui importanza spesso ci sfugge eppure nell’economia della rivoluzione dell’eternità proprio l’Ascensione ha un ruolo importante. L’abbiamo enunciato sopra, ora cerchiamo di supportare le affermazioni con i riscontri biblici, teologici, ecclesiali.

Dopo la sua morte  Gesù è asceso al cielo per preparare l’accoglienza degli apostoli e dei fedeli. Racconta Giovanni (14,1-4) che Gesù disse ai discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via». Disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me». 

Un teologo che ebbe un ruolo importante nella teologia della seconda metà del secolo scorso e fu fra i protagonisti del Concilio,  Jean Daniélou,  mette un accento particolare sull’Ascensione. Gesù dice il teologo e cardinale francese, si presenta come il Figlio dell’uomo annunciato da Daniele: chi crede in Lui è già giudicato. (Giov. III, 17), è passato dalla morte alla vita (V, 25), possiede la vita eterna (V, 24). Tutto questo viene compiuto dagli avvenimenti misteriosi della sua Incarnazione, della sua Passione, della Resurrezione e infine dell’ Ascensione per la quale, secondo il detto dell’Epistola agli Ebrei, l’umanità è introdotta una volta per sempre nella sfera di Dio.  “Lo straordinario avvenimento che nella storia del mondo è rappresentato dall’ Ascensione – scrive Daniélou ne “Il Mistero della salvezza delle nazioni”, un libro pubblicato in Italia nel 1954 – è  che, una volta per tutte e per sempre, l’umanità viene unita alla vita divina ed è introdotta da Cristo nella sfera di Dio: «Hapax », «una volta per tutte », in una maniera assolutamente « irreversibile» secondo il termine che usano i filosofi moderni per definire il senso stesso del tempo. Questo vuol dire che non ci può essere più un ritorno indietro e che l’umanità non può essere più separata da Dio. Essa vi è entrata per sempre e definitivamente. Noi siamo salvati in Cristo. Per conseguenza la salvezza nostra non è più soltanto una speranza, ma una realtà già realmente posseduta. Abbiamo già la vita divina e la fine dei tempi è venuta con Cristo. Questo è definitivamente acquisito “.

Beato Angelico . Ascensione di Gesù

Un commentatore dello scrittore francese ha fatto notare  la differenza fra Incarnazione e Ascensione. Secondo il pensiero di parecchi Padri, con l’Incarnazione l’umanità intera ha già contratto un’unione indissolubile con la divinità attraverso Gesù Cristo. Ma un’unione ancora iniziale e potenziale, destinata a svilupparsi nei singoli uomini attraverso la loro incorporazione a Cristo: il risultato di questa incorporazione è la Chiesa, corpo mistico di Cristo. Con l’Ascensione è Cristo, capo della Chiesa, che entra in cielo e che vi introduce quelli che sono definitivamente incorporati a Lui. Con l’Ascensione Cristo inaugura il nuovo Paradiso che non è abitato solo da angeli ed arcangeli ma dagli uomini con i loro valori, la loro storia, la loro cultura. Con l’Ascensione, l’abbiamo già detto, il Regno di Dio si insedia nel Paradiso.

Tuttavia,- osserva ancora Deniélou –  se consideriamo noi stessi e l’umanità che ci circonda, siamo colpiti da quel che resta di miseria, di peccato e dalla piccola differenza che spesso sembra esserci tra un cristiano e un non cristiano. Siamo sbalorditi vedendo come la salvezza acquistata in Cristo sia ancora cosi poco manifesta. Era già così per i primi cristiani; benché convinti che a partire dalla Pentecoste lo Spirito Santo fosse venuto e che essi avessero la vita divina, erano pure coscienti di ciò che loro mancava; vedevano bene, in particolare, di non essere ancora risorti. Se essi, secondo il detto di S. Paolo, potevano dire: «Consurrexistis cum Christo – Siete già risorti con Cristo », sapevano anche che la resurrezione a cui partecipavano con la grazia non era ancora manifestata nel loro corpo. Secondo un’espressione di S. Giovanni: «Noi siamo ora figli di Dio . Ma ciò che saremo un giorno non è ancora stato manifestato ». C’è quindi qualche cosa di acquisito e nel tempo stesso uno scarto che separa questa prima acquisizione dal compimento definitivo. E una riprova dello scarto che esiste fra la vita terrena cadenzata dal tempo e l’aldila’ immerso nell’eternita’. Comunque sappiamo che al tempo di questa manifestazione, di questa Apocalissi, «noi saremo simili a Lui perchè lo vedremo come è ». (I Giov 3,2).

Beato Angelico. Trittico

San Paolo in 1 Corinzi (15, 20-27) dice: “…Cristo è veramente risuscitato dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti. Infatti per mezzo di un uomo è venuta la morte, e per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione. Come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo.  Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni Principato, Dominazione e Potenza, e consegnerà il regno a Dio Padre: allora sarà la fine. Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti la Bibbia afferma: «Tutto ha posto sotto i suoi piedi»”.

Così la Resurrezione non riguarda solo gli uomini, riguarda tutto l’universo. “Tutto l’universo aspetta – scrive ancora S.Paolo – con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli. Il creato è stato condannato a non aver senso, non perché l’abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato. Vi è però una speranza: anch’esso sarà liberato dal potere della corruzione per partecipare alla libertà e alla gloria dei figli di Dio. Noi sappiamo che fino ad ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce. E non soltanto il creato, ma anche noi che abbiamo, le primizie dello Spirito, soffriamo in noi stessi perché aspettiamo che Dio, liberandoci totalmente, manifesti che siamo suoi figli.” (Rom. 8, 18-23).

 San Paolo parla di “tutto l’universo”. Che cosa si deve intendere? Solo l’universo creato cioè la natura o anche quella parte dell’universo costruito dall’uomo partecipando all’opera della creazione? Anche alla luce di quanto ha detto il Concilio Vaticano II  penso che il termine vada inteso in senso ampio investendo anche l’universo costruito dagli uomini. Anche queste realtà subiranno la trasfigurazione cioè verranno purificate da quelle che Giovanni Paolo II ha chiamato “strutture di peccato” e “meccanismi perversi” esaltando invece le strutture di solidarietà cioè i meccanismi virtuosi. Infatti dopo la sua morte Gesù ha inviato lo Spirito nel mondo:  “E’ bene per voi che me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore: ma quando me ne sarò andato ve lo manderò . E quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia ed al giudizio. Quanto al peccato perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo e’ stato giudicato” (Gv. 16, 7-11).

Quanto al peccato, quanto alla giustizia e quanto al giudizio certamente non può non comprendere anche l’ aiuto agli uomini a costruire quel pezzo di storia delle realtà terrene che, trasfigurato, entrerà a far parte del Regno di Dio. Quello della discesa dello Spirito è il terzo atto della grande rivoluzione ma sullo Spirito Santo torneremo a riflettere parlando della Pentecoste.

Esiste quindi un filo rosso che collega fra di loro Incarnazione, Passione, Resurrezione, Ascensione e Pentecoste. Un filo rosso che continua ancora oggi a scorrere nella storia e scorrerà fino alla Parusia quando cioè sarà messo fine alla storia del mondo, cioè alla vita terrena.

“Lo Spirito come il vento, soffia dove vuole” ( Gv. 3,8)

                                            “Lo spirito di verità vi guiderà verso tutta la verità.

                                            Non vi dirà cose sue….riprenderà quello che io ho insegnato,

                                            e ve lo farà capire meglio” (Gv 16, 13-15).

 

Nella Sacra Scrittura lo Spirito Santo è chiamato Spirito di Yahvé, Spirito di Dio, Spirito di Gesù Cristo, Spirito Santo. E’ stato scritto che lo Spirito Santo è la persona più misteriosa della Santissima Trinità, poiché come nell’uomo il suo spirito indica la sua intimità, così lo Spirito Santo esprime l’invisibilità di Dio, il suo profondo segreto e la sua incomprensibilità. Egli è ineffabile cioè il non-detto, l’indicibile per natura[1]. Nello Spirito Santo ci troviamo di fronte al mistero più profondo della vita trinitaria, allo stesso modo in cui scopriamo ciò che è più segreto nell’uomo quando conosciamo il suo spirito e la sua anima[2].

Lo “Sconosciuto”

E sicuramente questa è una delle ragioni per cui Hans Urs von Balthasar può dire che lo Spirito santo è “lo Sconosciuto che viene oltre al Verbo” ed i teologi orientali suggeriscono che piuttosto che parlare di lui è meglio invocarlo. Per avere una coerente intelligenza di questo mistero cioè è determinante acquisire l’atteggiamento dello stupore e della ricezione silenziosa[3].

Un’altra ragione per cui si parla dello Spirito Santo come di uno “sconosciuto” è legata al fatto che per molto tempo la teologia ma anche la chiesa docente lo hanno come dimenticato. Sicuramente la ragione più vera  fu che già nel cristianesimo primitivo, “entusiasti” e “fanatici”, convinti di possedere lo Spirito, si richiamarono a esperienze carismatiche e a illuminazioni personali per potere sminuire l’importanza e ignorare la tradizione storica e autentica di Gesù fissata nei vangeli canonici, e proclamata dall’istituzione ecclesiale. Così essendo continuamente costretti a richiamarsi alle strutture ufficiali e alle tradizioni tangibili e visibili contro le esagerazioni e gli eccessi fanatici ne è risultato che la struttura carismatica permanente della chiesa, il fatto fondamentale che la cristianità vive della forza dello Spirito sovrano del suo Signore glorificato, diviene facilmente sospetta e screditata[4]. Tutto questo col risultato che nel pensiero della chiesa si è appannato fino quasi a scomparire la riflessione relativa allo Spirito ed ai carismi a tutto vantaggio di una concezione centrata sull’incarnazione e sull’istituzione e quindi una realtà troppo chiusa nell’ambito terreno sensibile alle categorie del potere proprie del pensiero profano. Uno dei risultati di questa deriva è stato il ritardo nella elaborazione di una coerente teologia dei ministeri e del laicato.

E’ interessante notare come questa “dimenticanza” dello Spirito nella Chiesa si colloca in un contesto più vasto e cioè “in una rimozione dello Spirito in grande stile dal pensiero e dal comportamento ad opera del materialismo teoretico e pratico del nostro tempo”[5].

  

La pentecoste. Immagine tratta dal Lezionario di St. Trond., Belgio, metà del XII sec. M.883, f.62v., conservato presso la Pierpont Morgan Library, New York. A destra particolare: San Pietro.

Presenza dello Spirito nelle Scritture

Eppure è difficile dimenticare lo Spirito Santo se si leggono le Scritture perché esso si trova costantemente presente nell’Antico come nel Nuovo Testamento. Nell’Antico Testamento ci si imbatte nella sua presenza di libro in libro a cominciare dal Genesi dove “lo Spirito di Yahvé”è come un dono molto personale di sé con cui Dio si lega all’uomo: “Allora Dio, il Signore, prese dal suolo un po’ di terra, e con quella plasmò l’uomo. Gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo diventò una creatura vivente”( (2,7). In Isaia (59,21) poi e nel libro della Sapienza( 1,4; 19.17) lo Spirito di Yahvé santifica gli uomini, dona loro sapienza e conoscenza. Quanto al  Nuovo Testamento  l’insegnamento su Dio è , nel contempo, cristocentrico e trinitario. E’ nel mistero di Cristo che si è rivelato il Padre in quanto Padre, ed è anche Cristo che ci rivela lo Spirito Santo; al tempo stesso è lo Spirito Santo che ci fa conoscere il mistero di Cristo e, di conseguenza, il mistero di Dio ( Gv 14, 26).

Altro particolare: San Giovanni

L’azione del Cristo e quella dello Spirito sono nel Nuovo Testamento strettamente connesse. Lo Spirito accompagna ed assiste Gesù lungo tutta la sua missione terrena a cominciare dall’annunzio a Maria fino alla Resurrezione. Una assistenza particolare fu quella con cui accompagnò Gesù, che si era spogliato della sua divinità “divenendo simile agli uomini”( Fil. 2,6), verso la sua consapevolezza di essere il Figlio di Dio. Di questo cammino noi non conosciamo nulla se non alcuni sprazzi riferiti dagli evangelisti come al battesimo sul Giordano, l’esperienza del deserto, e via via fin quando, sulla croce, lo riconsegna al Padre: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).

Il Piano di Dio

Yves Congar sottolinea come il “piano” di Dio che si manifesta a noi segue l’ordine di processione delle persone divine e dell’opera di Dio di cui i tre grandi momenti decisivi sono la creazione, la redenzione e la santificazione o comunicazione della vita divina.

“La rivelazione ci mostra Dio che si inserisce sempre più intimamente nella sua creazione e che dona sempre più profondamente se stesso, per far partecipare l’uomo alla sua vita[6]”. Il Padre crea, e lo fa naturalmente con la partecipazione del Verbo e dello Spirito che non possono essere separati nell’opera creativa. Ma quando si tratta di portare agli uomini la salvezza della nuova alleanza è il Figlio che è impegnato personalmente. Poi quando si tratta di appropriare e rendere interiori negli uomini la rivelazione e la salvezza ( o la grazia) del Figlio, interviene lo Spirito Santo. E qui è lui ad essere impegnato personalmente nell’opera di Dio.

C’è come una divisione di compiti fra il Cristo e lo Spirito. Il Cristo rivela ed istituisce, lo Spirito vivifica ed attualizza. Il Cristo ha rivelato il mistero di Dio, annunciato il Vangelo e lo Spirito Santo attualizza questa parola, la conserva vivente. Il Cristo ha istituito la missione apostolica, lo Spirito la realizza veramente come missione e coopera con l’apostolato perché porti i suoi frutti. Il Cristo ha istituito i sacramenti, lo Spirito dà ad essi la forza santificante quando vengono applicati. Lo Spirito – osserva Congar – non fa che terminare il programma istituito da Cristo.

“Sembra che ci sia un’unica opera, ma in due tempi, di cui il primo è appropriato al Verbo incarnato, il secondo allo Spirito Santo. Dal primo è stabilita e realizzata la ‘forma’ della salvezza; dal secondo vi è infusa la vita, la ‘forma’ riceve il suo movimento ed il suo frutto vivente…L’opera dello Spirito Santo è quella di effettuare, attualizzare, e interiorizzare in noi lungo il tempo, ciò che il Cristo ha fatto ed istituito per noi una sola volta, al momento della sua incarnazione”[7].

Questo, ci ricorda ancora Congar, è avvenuto anche per la Chiesa di cui parleremo in un incontro apposito. Cristo la ha istituita lungo gli anni che ha passato nella sua carne promuovendo l’apostolato, i sacramenti, la primizialità di Pietro; con l’invio dello Spirito Santo alla Pentecoste, dona ad essa il soffio della vita.

Come lo Spirito attualizza il Verbo

Sull’attualizzazione dello Spirito ha riflettuto specialmente von Balthasar: “Questa attualizzazione – scrive il teologo gesuita  – non pone però il contemplante semplicemente di fronte a un testo che forse possiede «significato per tutti i tempi», ma di fronte all’evento stesso in esso racchiuso, che nella sua attualizzazione perde tutto ciò che a motivo dei millenni alle sue spalle può farlo sembrare invecchiato e consumato. No davvero, l’evento è ora presente per me, totalmente nuovo e intatto, in una divina giovinezza. Come se fosse destinato a me, originariamente per me. E mi è presentato totalmente dischiuso in tutte le sue ampiezze. L’attualizzazione dello scenario sul lago di Genesaret avrebbe ben poca importanza se contemporaneamente non mi si rivelasse la sopratemporale, anzi eterna significatività di ciò che avviene in esso: cosa significa che l’uomo-Dio dà la vista a un cieco, rialza una donna piegata a terra, ne guarisce un’altra dal suo letto di febbre così che può rialzarsi e può servirlo… Ognuno di questi. quasi innumerevoli eventi ha uno stabile appiglio sulla terra, ma la sua portata si perde nelle infinite altezze della divina vita trinitaria. Lo Spirito non «spiritualizza» il terreno ma indica l’illimitata autorivelazione di Dio soggiacente nell’evento dell’incarnazione. E questo – come abbiamo detto – non nella atemporalità di una generale verità filosofica ma nel suo rivolgere proprio a me la sua attualità storicamente irripetibile, e perciò non superabile, nella misura in cui mi espongo ad esserne colpito.

Tutto questo naturalmente non vuol dire che il contemplante non debba più sforzarsi personalmente, e che può lasciarsi offrire ciò che lo Spirito gli dischiude, quasi come in un film. Ttutto ciò significa piuttosto che egli deve restare consapevole che senza lo Spirito, che «scruta le profondità di Dio», non può certo penetrare in queste profondità. Lo Spirito è il vero esperto per la rivelazione di questi misteri, velati allo sguardo puramente umano, ma già offerti nell’incarnazione sensibile. Ed egli lo è tanto più in quanto è presente contemporaneamente nel mistero oggettivo che stiamo contemplando e nella soggettiva profondità di noi stessi, come il ponte dunque che ci conduce al mistero. Egli lo è inoltre nella misura in cui è «uno che guida» (Rm 8), anzi proprio uno spirito che «sospinge fuori» (Mc 1,12) dal passato, che non permette un soffermarsi su qualcosa di superficiale, ma che ci ispira la coscienza del Dio sempre maggiore. Egli non vuole irrequietezza, ma non sopporta neppure una quiete oziosa, spira al di là del cercare e del trovare, del muoversi e del riposare. Possiamo trovare ristoro in Dio, ma non in noi stessi[8]”.

L’opera attualizzante dello Spirito Santo non è una novità del Nuovo Testamento ma permeava anche l’Antico. Abbiamo già letto il passo del Genesi in cui Dio crea l’uomo. Anche qui, a ben vedere, vi sono due momenti: prima Dio forma Adamo, poi è il momento dello Spirito e vi infonde il soffio animatore di vita. Ma forse l’esempio più suggestivo è nella grande visione di Ezechiele (cap. 37). Ezechiele è portato in una grande valle tutta coperta di ossa e su comando del Signore le ossa si avvicinano tra loro e si uniscono l’uno all’altro ricomponendo lo scheletro, quindi si ricoprono di nervi, di carne, di pelle. Poi, il Signore chiede al “soffio della vita” di soffiare su quei cadaveri perché rivivano. E il soffio della vita entra in quei corpi ed essi riprendono vita e si alzano in piedi (37, 1-10).

Lo Spirito è persona

Lo Spirito è persona, ed è una persona divina. Essere pervenuti ad affermare – nella storia della Chiesa – che Dio è “una essenza e tre persone” è stato un cammino faticoso che lascia

però molti perplessi. Un teologo della statura di Karl Rahner ammonisce che quando noi oggi usiamo il termine di persona al plurale “pensiamo a più centri spirituali di atti, a più soggettività e libertà spirituali. Ma tre persone del genere non esistono in Dio…”[9]. E Theodor Schneider ricorda che non bisogna mai dimenticare che noi, quando parliamo di Dio, ragioniamo con “analogie” e così “ogni concetto umano applicato a Dio, anche il concetto di ‘persona’, ha in sé più cose che non si addicono a Dio di quante si addicano”[10]. Purtroppo è un limite con cui bisogna fare i conti ma che non può essere superato perché, osserva Walter Kasper, privarsi nella dottrina trinitaria del concetto di persona vorrebbe dire privare questa dottrina della sua “fecondità”[11] che sta proprio nel fatto di affermare che la natura del Dio trinitario è strutturata in modo profondamente personale.

D’altronde difficoltà a considerare lo Spirito persona non sono solo di natura teologica ma anche psicologica. Non si fa fatica a considerare persone il Padre ed il Verbo. Il Verbo perché si è incarnato in Gesù Cristo ed il Padre perché ci rifacciamo, per analogia, al rapporto padre-figlio dell’esperienza umana. Più difficile è invece considerare persona lo Spirito. Si sarebbe tentati di considerarlo come l’energia con cui il Padre anima il creato o con la quale il Cristo glorificato opera in noi. Invece egli è pienamente persona come il Padre e il Figlio. Ce lo rivela la Scrittura ed in particolare il Nuovo Testamento. Ci basti ricordare il vangelo di Giovanni dove Gesù ( 14, 16-17) ne parla come di un altro “Paraclito”, personale come lui, e le lettere di Paolo. Nella lettera ai Galati(4, 4-6) l’Apostolo dei gentili parla di due invii da parte di Dio: prima il Figlio e poi “lo Spirito di suo Figlio”. Due invii del medesimo genere. Ed ancora Paolo nella lettera ai Romani parla dello Spirito come una persona che ci viene in aiuto, prega, intercede, in particolare dove dice: “anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza … mentre lo Spirito stesso prega Dio per noi. E Dio… conosce anche le intenzioni dello Spirito…” (Rm. 8,26-27).

Ma se consideriamo attentamente anche nel passo di Ezechiele che abbiamo richiamato, “il soffio della vita” che trasforma i cadaveri in essere viventi è fortemente personalizzato infatti Dio gli si rivolge ordinando di soffiare sui corpi. E prima, quando  promette di trasformare i cuori di pietra in cuori di carne afferma: “Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi”(36,28).

Lo Spirito è Persona divina

Un altro problema che ha molto travagliato la Chiesa lungo la storia è stato quello della natura del Figlio e dello Spirito rispetto al Padre. Infatti non mancava chi sosteneva che il Figlio e lo Spirito erano inferiori e subordinati, quanto alla loro origine divina, rispetto al Padre. Per primo si pose il problema per il Figlio che Ario sosteneva che essendo creatura del Padre non poteva essere della stessa sostanza. Fu il concilio di Nicea nel 325 che dichiarò che il Figlio era “consustanziale” al padre e bollò come eretica la posizione di Ario.

In qualche modo però la questione dello Spirito – che Ario sosteneva “dissimile” non solo dal Padre ma anche dal Figlio – rimase aperta. Fu grazie al contributo di tre importanti vescovi cappadoci – Basilio Magno, Gregorio Nazianzio e Gregorio di Nissa – che il concilio di Costantinopoli nel 383 reinquadra lo Spirito nella vita unitaria del Padre e del Figlio: lo Spirito è la presenza permanente dell’azione salvifica del Dio uno, e media permanentemente l’azione del Padre e del Figlio sulla chiesa e sulla storia. Lo Spirito è il vivicans colui che “dà la vita” e viene associato direttamente al battesimo e alla resurrezione.

Il Concilio di Costantinopoli, il secondo concilio ecumenico nella storia della Chiesa, riepilogò il risultato di tre secoli di riflessione e di dibattito teologico anche molto aspro e sulla base della rivelazione biblica il concetto di Dio fu motivatamente presentato come un concetto trinitario e, coi mezzi della filosofia greca, definito come una forma specifica del monoteismo. Assieme alla professione di fede anch’essa formulata da quel concilio, rappresenta uno dei pilastri fondamentali del cristianesimo[12].

Il problema del “filioque”.

Un altro problema relativo alla teologia dello Spirito Santo che ha travagliato la Chiesa e che è stata anzi una delle cause dichiarate del grande scisma fra Chiesa d’oriente e Chiesa d’occidente che si indica nel 1054, è la questione del “filioque”. Nel Simbolo scaturito dal  Concilio di Costantinopoli si era detto che il criterio per stabilire la divinità dello Spirito era il fatto che egli “procede dal Padre”. Ma siccome nel Nuovo Testamento si dice che egli è anche lo Spirito di Gesù e quindi del Figlio, nel VII secolo la Chiesa occidentale, nella redazione latina del Credo, introdusse – autonomamente e senza concordarlo con le chiese orientali – il filioque: cioè fu scritto che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio.

Questo apparve alle Chiese orientali una grave falsificazione del testo originario e, insieme ad altri fattori (fra cui il concetto del primato anche giurisdizionale del Vescovo di Roma in quanto considerato successore dell’Apostolo Pietro), portò ad una polemica crescente fra oriente ed occidente che culminò nel 1054 con la scomunica del patriarca Michele I Cerulaio da parte di Papa Leone IX a cui il patriarca replicò a sua volta con un proprio anatema scomunicando il papa. Nel corso dei secoli ci furono tentativi di raggiungere un chiarimento, come nel II Concilio di Lione  del 1274 che era un concilio della chiesa occidentale, dove si insistette sul filioque aggiungendo che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio “come da un solo principio e da un’unica spirazione”. Purtroppo dopo aver fatto questo sforzo di mediazione i Padri conciliari non resistettero alla tentazione di emettere una solenne condanna di tutti coloro che “osano negare la processione eterna dello Spirito del Padre e del Figlio”. E si tornò al punto di partenza.

Ma al di là delle polemiche e degli irrigidimenti qual è la natura e la consistenza reale di questo dissenso? La riflessione ecumenica degli ultimi decenni, in un contesto più sereno, ha portato a prendere coscienza che le due impostazioni teologiche, nella sostanza, vogliono dire la stessa cosa  e testimoniare la medesima fede con una veste concettuale diversa. I teologi orientali pensano partendo dal Padre. Lui soltanto è l’”origine” divina, il Figlio e lo Spirito procedono direttamente da lui, anche se la “generazione” del Figlio condiziona la “spirazione” dello Spirito. L’amore di Dio esprimendosi nel Figlio tende ulteriormente nello Spirito Santo ad uscire da sé e a profondersi nel creato e nella storia. Lo Spirito è la realtà traboccante, straripante, per così dire “più esterna” di Dio.

La teologia occidentale pensa partendo piuttosto dall’unica essenza trinitaria di Dio. Essa concepisce lo Spirito Santo come l’amore comune del Padre e del Figlio, come il vincolo di unità fra i due, per così dire come la realtà più intima e nascosta di Dio.

Oggi, fuori dalle polemiche politiche che hanno alimentato il dissenso, si riconosce da entrambe le parti che entrambi i modelli hanno i loro punti deboli ed i punti forti e che il mistero di Dio è così grande che li relativizza entrambi relativizzando così il dissenso.

Per questo un teologo della statura di Congar ha potuto scrivere nel 1980 che la Chiesa cattolica romana “potrebbe togliere il Filioque dal Simbolo nel quale è stato introdotto in modo canonicamente irregolare. Da parte sua sarebbe un atto di umiltà e di solidarietà ecumenica che potrebbe, se gli ortodossi l’accolgono nel suo senso genuino, creare una situazione nuova favorevole al ristabilimento della piena comunione”[13].

Ha parlato per mezzo dei profeti

Madre Teresa di Calcutta

L’ecclesiologia cattolica uscita dal Concilio di Trento poggiava sulla convinzione che Cristo ha fondato la sua Chiesa come società gerarchica e provvista di tutti i mezzi necessari alla propria missione di comunicare la salvezza. Un teologo che nella prima metà del XIX secolo andava per la maggiore così riassumeva l’ecclesiologia ufficiale: ”Dio ha fondato la gerarchia; e così ha provveduto a tutto ciò che occorreva fino alla fine dei tempi”. In essa non c’era indubbiamente spazio per lo Spirito che soffia dove vuole né per quei carismi, come il carisma della profezia, che non passassero per la struttura gerarchica. Inoltre i trattati sulla rivelazione asserivano, senza offrire alcun spiraglio, che questa era conclusa con la morte dell’ultimo apostolo.

Rispetto a questa concezione istituzionalista il Concilio Vaticano II ha sviluppato la riflessione sullo Spirito, ha messo l’accento sul primato del “popolo di Dio” ed ha rivalutato la teologia dei carismi che risale a S. Paolo. Congar ha così riassunto questa nuova attenzione allo Spirito che riconsidera lo spazio della profezia:

“Lo Spirito immette il nuovo e l’inedito nella storia e nella diversità delle culture; ma è un nuovo attinto dalla pienezza data una volta per tutte da Dio in Cristo. Questa pienezza non è stata né totalmente rivelata, né totalmente compiuta nel Cristo secondo la carne. Bisogna perché sia compiuta, che venga compenetrata dallo Spirito, come , perché fosse rivelata, occorreva che lo spirito si impossessasse degli apostoli e dei profeti, e che Paolo, apostolo sopraggiunto, fosse chiamato dal Cristo glorioso e il ‘mistero’ formulato all’inizio della lettera agli Efesini fosse rivelato ai santi (Col. 1,26; Ef. 3, 3-5)… Paolo ( 1 Cor 12,3) e Giovanni (1 Gv 4,2) fanno della testimonianza resa al Signore Gesù il criterio dell’azione dello Spirito. Se lo Spirito apporta l’inedito nel futuro della storia, non si tratta tuttavia di un inedito fluttuante e indeciso…. Se il Verbo è penetrato dello Spirito, lo Spirito è penetrato del Verbo. Entrambi sono inseparabili. Entrambi procedono dal Padre”[14].

Non esiste quindi una chiesa del Verbo ed una dello Spirito, una chiesa della gerarchia ed una della profezia. Esiste “un’unica Chiesa di Dio, che è insieme dell’acquisito e del futuro; ed egli la costruisce con le sue ‘due mani’”[15]! Le due mani che, secondo la bella immagine di Ireneo, sono la Parola ed il Soffio.

I movimenti spirituali.

Da questa posizione rispetto alla profezia e al profetismo deriva anche quella nei confronti dei cosiddetti movimenti carismatici o spirituali. Una rinnovata attenzione allo Spirito ha anche ridato fiato a questi movimenti che si vantano, tal volta, di agire sotto la guida diretta dello Spirito Santo. Non è questo che si può loro rimproverare, osserva Congar[16], ma eventualmente il fatto che essi “non mettono questa ispirazione in rapporto con l’opera del Cristo, con il dato, fatto una volta per tutte e definito dell’opera positiva e storica del Cristo: vangelo, predicazione degli apostoli, chiesa.

Infatti, se lo Spirito Santo è veramente attivo, se non bisogna chiudersi nella valorizzazione esclusiva ed essenzialmente giuridica dell’istituzione ecclesiale, se non bisogna mettere in disparte lo Spirito Santo sarebbe, sostiene Congar, un errore altrettanto grave e certo più dannoso agganciarsi allo Spirito Santo e dipendere direttamente da lui, facendo astrazione dal dato positivo, dell’istituzione del Signore, che egli ha la missione, precisamente, di effettuare e attualizzare in noi.

La Pentecoste è il seguito della Pasqua e del Natale, strettamente legata a questi fatti decisivi. Lo Spirito santo interpreta soltanto e aiuta penetrare in pienezza il mistero del Cristo nella storia.

Il discernimento  

Strettamente connesso allo Spirito è l’esercizio del discernimento. Vi è un discernimento generale a cui tutti siamo chiamati ed è la capacità di sapere leggere i “segni dei tempi”. Ricordiamo l’ammonimento di Gesù: “Ipocriti! Siete capaci di capire l’aspetto del cielo e della terra, e allora come mai non sapete capire quel che accade in questo tempo?” ( Lc 12, 54-59). Tutti siamo chiamati a leggere i segni dei tempi, a capire che cosa succede nella nostra comunità e nel mondo, a discernere le cose importanti da quelle secondarie, quelle che incidono e rimangono e quelle destinate a scomparire presto appunto come quando vediamo “una nuvola che sale da ponente” e diciamo che arriverà la pioggia.

Molto simile al discernimento comune è il discernimento spirituale che è la ricerca dell’opera dello Spirito nella vicenda umana e che è richiesta a tutti i credenti: “Non spegnete lo Spirito – esorta Paolo -, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa con discernimento, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male” (1 Tess 5, 19-22). Lo Spirito, infatti, opera in continuazione nella storia esortando alla fraternità, promuovendo patti di pace fra gli uomini, ispirando l’impegno per la giustizia, per la pace, per la solidarietà, consigliando la misericordia e sollecitando la compassione. Discernere quest’opera dello Spirito  nelle vicende umane richiede umiltà, riflessione, meditazione, preghiera. Chiede capacità di osservare a partire dalla Parola e dall’insegnamento della chiesa.

Ed infine c’è un discernimento specifico, carismatico. Quello di cui parla Paolo in 1 Cor 12, 4 e ss.: “Vi sono diversi doni ma uno solo è lo Spirito. Vi sono diversi modi di servire ma uno solo è il Signore. Vi sono molti tipi di attività, ma chi muove tutti all’azione è sempre lo stesso Dio. In ciascuno lo Spirito si manifesta in modo diverso, ma sempre per il bene comune”.

Il discernimento carismatico è un dono  e va di pari passo con la profezia il cui ruolo non è quello di predire il futuro, bensì di annunciare, in una situazione concreta, la volontà di Dio su un individuo o su una comunità. Il discernimento non lo si deve intendere come un dono indipendente: esso piuttosto fornisce un test per le enunciazioni profetiche e un controllo contro i loro abusi (così 1Cor 14,29)”[17]. Un criterio oggettivo assolutamente sovrano consiste nell’ortodossia cristologica: 1 Cor 12,3; 1 Gv 4, 1-3. E’ una condizione indispensabile di autenticità, che si traduce concretamente nella capacità di edificare il Corpo di Cristo.

Il peccato contro lo Spirito

“Tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini, e anche tutte le bestemmie che diranno, ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in terno: sarà reo di colpa eterna” (Mc 3,28 e ss). Queste parole dure ed in un certo senso inusitate di Gesù risultano ancora più forti nelle versioni di Matteo e Luca perché viene sottolineato che potrà essere perdonato chi parla contro il Figlio ma non la bestemmia contro lo Spirito, “né ora né mai” (Mt 12,32).

Ma qual è questa bestemmia contro lo Spirito che non può essere perdonata? Vi è un insegnamento costante della chiesa che risale a Tommaso d’Acquino e che Giovanni Paolo II ha riproposto nella lettera enciclica “Dominum et vivificantem”: “la bestemmia non consiste propriamente nell’offendere con le parole lo Spirito santo; consiste, invece, nel rifiuto di accettare la salvezza che Dio offre all’uomo mediante lo Spirito Santo, operante in virtù del sacrifico della croce”[18]. Cioè è il rifiuto radicale a convertirsi non per ignoranza ma coscientemente e determinatamente. E’ il peccato commesso dall’uomo “che rivendica un suo presunto ‘diritto’ di perseverare nel male, in qualsiasi peccato, e rifiuta così la redenzione”[19].

Cercando di approfondire il ragionamento il papa fa riferimento a quella “durezza del cuore” di cui parla la Scrittura (Mc 3,5; Ger 7,24; Sal 81,13) e suggerisce che nella nostra epoca a questo atteggiamento di mente e di cuore potrebbe corrispondere forse la perdita del senso del peccato. Una perdita che è conseguenza di un’altra perdita: quella del senso dell’offesa contro Dio.

La chiesa esorta il papa di fronte a questa realtà deve pregare e prestare il suo servizio “perché la storia delle coscienze e la storia della  delle società nella grande famiglia umana non si abbassino verso il polo del peccato col rifiuto dei comandamenti divini ‘fino al disprezzo di Dio’ , ma piuttosto si elevino verso l’amore, in cui si rivela lo Spirito che dà la vita. (n.48).

Lo Spirito costruttore del Regno

Madre Teresa fra i poveri di Calcutta

Una delle riflessioni che ci accompagna in questi incontri riguarda il Regno di Dio, il “già e non ancora”,  istituito da Gesù che dopo la Resurrezione, con l’Ascensione al Padre, ha aperto il Paradiso agli uomini trasformandolo appunto nel Regno di Dio destinato, via via nello svolgersi della storia umana, ad assumere trasfigurandoli i sentimenti, i valori, le opere, le strutture che gli uomini realizzano nella storia impegnandosi a favore della pace, della giustizia, della solidarietà. Un’opera che si completerà nella Parusìa cioè alla fine dei tempi quando l’esperienza di questo mondo sarà compiuta.

Abbiamo detto che strumenti importanti di questa costruzione già oggi operanti in questo mondo sono la santità, l’eucarestia e lo Spirito santo. In particolare lo Spirito Paraclito è stato mandato da Gesù proprio per questo scopo, per sostenere gli uomini nell’opera di costruzione del Regno già in questo mondo, realizzando col suo stimolo e il suo contributo, ciò che verrà assunto e trasfigurato.

Per questo mi sembra che sarebbe importante che la Chiesa promuovesse nella pratica dei credenti una preghiera antica  che risale probabilmente a prima dell’anno 1000: la Sequenza dello Spirito Santo che si recita in particolare nella Messa di Pentecoste.

Giovanni Paolo II e Madre Teresa

Vieni, Santo Spirito,
mandaci dal cielo
un raggio della tua luce.

Vieni, padre dei poveri,
vieni, datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.

Consolatore perfetto,
ospite dolce dell’anima,
soave refrigerio.

Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.

O luce beatissima,
invadi nel profondo
il cuore dei tuoi fedeli.

Senza il tuo soccorso,
nulla è nell’uomo,
nulla senza colpa.

Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
raddrizza ciò ch’è sviato.

Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.

Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.

Amen.


[1] F.-X. Durrwell, Lo Spirito Santo alla luce del mistero pasquale, Edizioni Paoline, 1985

[2] G. Maspero, Il ruolo dello Spirito Santo nella fecondità della vita trinitaria

[3] R. Fisichella, Lo sconosciuto oltre il Verbo. Considerazioni sullo Spirito Santo, in “30 giorni”.

[4] T. Schneider, La nostra fede. Una spiegazione del simbolo apostolico, Queriniana, 1989, pag.311.

[5] Idem, pag.313.

[6] I. Congar, La Pentecoste, 1973, Brescia, pag.19

[7] I. Congar, idem, pp23-24.

[8] H.U.von Balthasar , Meditare da cristiani, Brescia 1986

[9] K. Rahner, Il Dio trino come fondamento trascendentale della storia della salvezza, III, 1969.

[10] T. Schneider, op.cit., pag. 344.

[11] W.Kasper, Gesù il Cristo, p.257.

[12] W.D. Hauschild, Il dogma trinitario

[13] Y. Congar, Io credo nello Spirito Santo, III vol. , pag. 221

[14] Y. Congar,  La parola e il soffio, Borla, 1985, pag. 99.

[15] Idem.

[16] Y. Congar, La Pentecoste, op.cit., pagg. 26-28,

[17] J.D.G. Dunn, Jesus and the Spirit. A Study of the Religious and Charismatic Experience of Jesus and the First Christians as reflected in the New Testament, Londra, 1975, in Y. Congar, Credo nello  Spirito Santo, vol. II, pag. 195.

[18] Giovanni Paolo II, Lasciatevi muovere dallo spirito, n. 46.

[19] Idem.

 

                                                                                                                                                                                                                                                           

 

 

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