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La chiesetta del Pozzo ed il delinearsi della Lipari di oggi

pubblicato da admin il Gio, 12/03/2015 - 07:49

La chiesetta del Pozzo è stata fin dagli inizi, nel 1771, un punto di riferimento per i piccoli artigiani e commercianti e gli strati più umili della popolazione e probabilmente venne creata proprio per questo.

Quando il canonico Franza, nella seconda metà del 700, comincia a pensare ad una chiesetta in un terreno della sua famiglia in quella che si chiamava “vico del pozzo”, sul greto di un torrente su cui si aprivano orti e, sempre più, anche botteghe di piccoli artigiani ed i carretti di chi vendeva legumi, frutta ed altri generi alimentari, la vera Lipari era ancora nella cinta del Castello, e quelli che vivevano in quella parte, sotto le mura, era la gente più umile.

   

Due immagini della chiesetta negli anni 40 del 1900.

Era vero che già da un secolo e più,  via via che fra la gente andava diminuendo la paura delle incursione barbaresche e le autorità chiudevano un occhio sul fatto che c’erano disposizioni contro chi costruiva fuori dalle mura, la città andava espandendosi nella parte bassa. Avevano cominciato gli strati sociali più poveri, che non trovavano spazio nella città alta, a costruire le loro case fra il torrente e le mura del Castello, per lo più anguste, di uno o due vani, realizzate con materiale economico e quindi per lo più scadenti, con una piccola cisterna e prive di servizi igienici, con pavimenti sconnessi, di semplice battuto, le une accostate alle altre disegnandolo vicoli strettissimi in terra battuta perennemente sporchi e maleodoranti perché vi si vuotava di tutto persino i pitali con  gli escrementi della notte.

Poi dal Castello cominciarono ad andarsene anche le famiglie borghesi che,  oltre ad un benessere crescente, avvertivano una evoluzione nei gusti e nelle esigenze per cui le abitazioni al Castello erano troppo anguste e, non potendole ampliare, – introducendovi i servizi igienici e i nuovi spazi di convivialità e di rappresentanza - pensarono di costruire nella città bassa. I commercianti e gli armatori scelsero di risiedere nei pressi della marina mentre la nobiltà terriera ed altri borghesi ritennero importante poter disporre, dietro la loro abitazione, di uno spiazzo di terreno da destinare ad orto e a  giardino con un pergolato sotto il quale passeggiare e sostare all’ombra per conversare. E comunque gli uni e gli altri in zone ben distinte da quelle occupate dalla povera gente.

Sorsero così le abitazioni, anche su due piani, nella Marina di San Giovanni proprio di fronte al mare, sul lato destro della salita di S. Giuseppe, lungo il Timparozzo, nella strada di S. Pietro che si chiama oggi via Maurolico, lungo la strada dei Bottài , oggi via Roma, e qualcuna più in su nel vallone Ponte.  La Marina di San Giovanni, che arrivava fin dove oggi c’è il vicolo di Sant’Antonio e con l’omonima chiesetta dominava la spianata e il mare, venne ridotta dalle costruzioni delle famiglie La Rosa, De Pasquale, Carnevale.  Erano abitazioni dai “caratteristici prospetti ad intonaco colorato, spezzati da bianchi rifasci orizzontali, i sobri cornicioni correnti alla sommità, i portali ad arco, di pietra, i balconi, anch’essi di pietra, con ringhiere a ‘petto d’oca’ onde consentire alle donne di affacciarsi agevolmente sulla via nonostante indossassero le ingombranti crinoline a campana (Giuseppe Iacolino)”.

Chi, invece, decise di costruire lungo il torrente lo fece sul versante opposto a quello del Castello con le abitazioni che si aprivano sul verde dell’antica necropoli di Diana.

  Piazza San Giovanni

Quindi una Lipari che nasceva  marcatamente polarizzata, segnata dalla distinzione in classi sociali. La Lipari dei poveri nei vicoli intorno al Pozzo, la Lipari borghese ed agiata a partire dalla Marina San Giovanni, su su fino a toccare, ma senza confondersi, con la Lipari dei poveri.

Il pozzo che dava il nome al vicolo, dove il canonico Franza aveva deciso di costruire la sua chiesetta, non era uno di quelli che i più anziani  ricordano ancora ed i più giovani hanno imparato a conoscere nei disegni di Salvatore d’Austria, collocati dinnanzi al cancello del Palazzo Vescovile. Le “gibbie” non c’erano ancora e nemmeno il cancello. Questo pozzo  era una “senia”, come diverse ce n’erano a Lipari, ed infatti il vero nome con cui i liparesi  conoscevano quel vicolo era “u strittu a sena”. “Sena” o “senia”  è un termine che deriva dall’arabo sàniya che significava “ruota idraulica”, pozzo.

U Strittu a sena nella seconda metà dell’800

Una chiesetta quindi per il popolo e per i poveri era quella a cui pensava il canonico Franza e i poveri, che a Lipari erano tantissimi, erano affidati - più che all’Amministrazione civica ed ai Giurati - al Vescovo ed alla Diocesi che vi provvedevano con i fondi della mensa vescovile che non erano poi moltissimi. Tremila scudi in genere l’anno di cui, desunte tutte le spese,  rimanevano a disposizione solo 1.685 scudi con i quali fare fronte alle esigenze della povera gente ed allo “stato di bisogno della Chiesa”. Le chiese che, tolte pochissime, erano per lo più magazzini angusti con povere suppellettili, e, un clero tanto numeroso quanto ignorante. Infatti, se la borghesia che esprimeva l’amministrazione comunale, non era molto incline al Vescovo ed ai preti perché da sempre era schierata - come aveva dimostrato la “controversia liparitana” -con le autorità di Palermo o Napoli ( a seconda dei tempi), la nobiltà terriera era invece, in genere, molto devota alla Chiesa e , in queste famiglie, vi era sempre un ecclesiastico come non mancavano una o due figlie che prendevano il velo in privato. Soprattutto per le donne, le cosiddette “monache di casa”, la ragione era quella di evitare la frantumazione della proprietà mantenendola concentrata in una ristretta cerchia di eredi, per i maschi che intraprendevano la carriera ecclesiastica vi era anche la propensione ad una promozione sociale per sé e per la propria famiglia e la speranza di potere lucrare una parte delle entrate della mensa vescovile e delle offerte per le messe e le funzioni religiose in genere. E così nelle Eolie si potevano contare  95 sacerdoti, 8 diaconi, 5 suddiaconi, 5 accoliti e due lettori. Venti - venticinque erano i frati che risiedevano nei due conventi dei Minori e dei Cappuccini.

E proprio negli anni in cui il canonico Franza pensava a realizzare una chiesetta per i suoi poveri ed i suoi artigiani il vescovo Platamone portava un suo contributo alla valorizzazione della Lipari dei poveri e degli artigiani, rendendo agibile la residenza di villeggiatura, l’attuale Palazzo Vescovile,  ospitando anche la curia ed il tribunale ecclesiastico giacché  l’antico Palazzo  vicino alla Cattedrale era quasi del tutto crollato. Sopraelevò il primo piano ricavandone sei vani e realizzò un bel vialetto colonnato, ombreggiato da viti che andava verso la via di S. Lucia.

 Mons. De Francisco

Il vescovo De Francisco, che successe a Platamone, era cosciente che il futuro di Lipari stava sempre più nella città bassa e quindi autorizzò la costruzione della chiesa della Madonna del Rosario al Pozzo che si affiancava a San Pietro e San Giuseppe. Erano gli anni in cui anche a Lipari, come nel resto della Sicilia, cresceva la consapevolezza degli artigiani e dei piccoli proprietari terrieri che non condividevano l’atteggiamento di gran parte della borghesia di osteggiare il vescovo e la chiesa. E  questa consapevolezza si tradusse nella creazione di una forma di vita associata a carattere religioso.  Ben 104 artigiani si riunirono nella “Congregazione di Nostra Donna del SS.mo Rosario” con riferimento probabilmente alla chiesetta del Pozzo ed il vescovo approvò lo statuto degli “Onorati Artisti della  Nobile e Fedelissima Città di Lipari”.

Ma il successo con gli artigiani e la borghesia più povera e forse anche la volontà del Vescovo di valorizzare le risorse naturali di Vulcano che era un’isola abbandonata, invelenì ancora di più la borghesia tradizionale che reagì con la maldicenza e le calunnie nei confronti di mons. De Francisco come l’accusa infame di fare perire i bambini abbandonati – i cosiddetti projetti – per non dovere provvedere al loro nutrimento. Ma questa volta i signori di Lipari avevano oltrepassato il segno e a difesa del vescovo si schierò lo stesso vicerè di Sicilia minacciando di perseguire penalmente i calunniatori. Ma questa decisa presa di posizione del Regno purtroppo arrivò troppo tardi perché tensione e dispiaceri stroncarono il Prelato. 

Ma al di là delle calunnie comunque qualcosa stava cambiando nel Regno  nei confronti dei privilegi ecclesiastici e quindi anche circa le pretese dei vescovi di Lipari sulla proprietà delle isole. L’illuminismo del secolo ma forse anche la lezione riformatrice di Maria Teresa d’Austria, suocera del re, spingevano verso una secolarizzazione dell’amministrazione statale. Probabilmente a Lipari, le velenosità di alcuni nobili e borghesi nei confronti dei vescovi, si alimentava a questo clima e secondo una consuetudine, che si trascina fino ai nostri giorni, non avendo questi il coraggio e gli argomenti per esprimersi a viso aperto, ricorrevano alle calunnie e all’anonimato.

E questo malgrado di fronte ai terremoti ed ai disastri naturali, come avvenne proprio nel 1771, la gente tornava a cercare protezione nella religione ed  organizzava  grandi processioni penitenziali con in testa il clero, i frati ed il magistrato, l’immagine dell’Addolorata, la reliquia di S. Bartolomeo e poi ancora le immagini di S. Agatone e S.Calogero e dietro tutto il popolo.

Mons. Coppola

Ma questa fede che ha bisogno di vivere il pericolo per ravvivarsi, non può soddisfare un vescovo come Coppola che giunge a Lipari nel 1779 quando la chiesa del Pozzo opera già da alcuni anni ed è diventata il punto di incontro degli artigiani e commercianti che si stringono intorno alla Chiesa. Subito ai suoi occhi emergono due esigenze urgenti: la formazione del clero che è per lo più ignorante e la condizione delle donne relegate a svolgere in famiglia un ruolo servile e fuori, sulle strade, la più sfrontata prostituzione.

Ed è proprio per dedicarlo alle donne che mette mano alla costruzione, vicino al Palazzo vescovile del Borgo, di “un magnifico edificio”, realizzato in tre elevazioni, per tre distinte categorie di ospiti: le orfane, le donne che volontariamente “vogliono ritirarsi dal cattivo costume” e che venivano allora chiamate “repentite” cioè’ “ree pentite” e le vere e proprie educande. Ma c’erano anche problemi immediati come quello dell’acqua e ad uno studioso di agricoltura come era mons. Coppola, non potevano bastare le processioni per implorare la pioggia e per questo “ordinò la costruzione di tre ampie e profonde gisterne; due  avanti la gran porta del palazzo; l’altra innanzi la Chiesa del Rosario”.

Infine, ancora un tocco e il nuovo centro storico di Lipari sarà disegnato. Infatti nel 1782,  trasferì nel borgo, “nel recinto del Vescovile Palazzo”, il “Seminario delle Lettere” che i suoi predecessori avevano istituito sul Castello. Costruì cinque aule a piano terra – proprio di fronte al conservatorio delle donne - ed in esse fece altrettanti seminari di insegnamento aperti al pubblico.

Con l’arrivo a Lipari della colonia dei coatti che occupa il Castello negli ultimi decenni del ‘700 anche gli ultimi abitanti Liparesi lo abbandonano e scendono nella città bassa che diventa a pieno titolo la città di Lipari.

Una delle immagini più antiche del corso. Siamo nell’ultimo decennio del 1800.

Ora la Lipari moderna può dirsi delineata con al centro il Pozzo e la sua chiesetta che rimaneva sempre la chiesa della gente più umile ma forse ora un po’ meno marginale e polarizzata perché con lo sviluppo dell’agricoltura e dei commerci andava proponendosi una classe media che faceva da ponte fra la borghesia e il popolino . Così la Lipari delle attività commerciali ed artigiane era venuta sviluppandosi nei quartieri intorno alla Marina di S.Giovanni che, da qualche tempo, aveva preso il nome di Piazza del Commercio, la salita che dalla Marina arrivava al Timparozzo, quindi la strada di Santo Pietro – l’attuale via Maurolico – e quindi la strada del Pozzo venendo a collegarsi ed in qualche modo ad integrare la Lipari dei poveri.

Lungo l’attuale Marina lunga che allora si chiamava  Marina San Nicolò, le poche casupole di pescatori che vi erano all’inizio del secolo con le loro barche tirate a secco dinnanzi, erano venute aumentando di numero ed in fondo, un po’ distaccata dal resto, vi era sempre la chiesetta di San Francesco di Paola che verrà poi rinominata Maria SS.di Porto Salvo con a fianco l’ospedale di San Bartolomeo per soli uomini che aveva voluto il facoltoso commerciante don Bartolomeo Russo morto nel 1712.

Il Piano del Pozzo cominciava, ora,  a registrare una vivacità pittoresca con le botteghe artigiane – stagnari, fabbri, falegnami, tintori, barbieri, sarti, calzolai -, le bottegucce dei piccoli commercianti, le taverne numerose anche se sudice. E poi, fin dalle prime ore del mattino, il vocio dei rumori di facchini e di carrette che con secchie e barilotti venivano ad attingere acqua alle gibbie.

Già intono agli anni 30 la Piana del Pozzo, malgrado si trattasse di un greto limaccioso ed accidentato, andava assumendo una precisa caratteristica con alcuni edifici pubblici importanti. Vi era, nell’arco di un centinaio di metri o poco più, la Chiesetta del Rosario con di fronte l’ospedale dell’Annunciata; più avanti, in direzione della chiesa di San Pietro, le due gibbie con dietro le scuole vescovili da un lato e dall’altro in grande fabbricato del Conservatorio con all’angolo la cappella dell’Addolorata; sullo sfondo l’edificio del Palazzo vescovile.

La separazione della Strada del Pozzo dalle scuole e dal conservatorio femminile che si trovavano ai lati dell’attuale viale mons. Bernardino Re, con un muro orlato ed un grande cancello di ferro avverrà intorno al 1840 per volontà del vescovo Proto.

Fu per la trasformazione dell’abitato e lo sviluppo della città bassa che la chiesa di S.Pietro, il 4 giugno del 1808 divenne chiesa sacramentale e chiesa filiale della Cattedrale come lo era già quella di S. Giuseppe.

                                                                                 Michele Giacomantonio

                                         

                

 

 

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